Così è rinato il Nebbiolo di Dronero

Un vino con il profumo e l’aroma delle nostre terre

È diventato di moda, in questi ultimi tempi, andare alla ricerca degli antichi mestieri e quando si scopre ancora qualcuno di quei vecchi artigiani, presentarli alle fiere o alle feste paesane intenti al loro lavoro.

Ormai sa solo più di folklore vedere il fabbro che, battendo il ferro rovente sull’incudine, lo plasma a suo piacimento o l’impagliatore di sedie, il muleta, l’ombrellaio, l’acciugaio col carrettino, il bottaio, lo stagnino, lo zoccolaio, il tessitore, il tornitore o la nonna a sferruzzare calzette e scarpini, pizzi e merletti ecc.

Purtroppo chi non può dar prova in fiera della sua arte, poiché di arte si tratta, è il vignaio, colui cioè che coltiva personalmente il suo vigneto, ne raccoglie e pigiai frutti, li vinifica da esperto enologo nella sua cantina e lo presenta in fiera o al ristorante in bottiglia, con tanto di denominazione. Ho tra mano un dépliant che presenta “Il nebbiolo di Dronero”, un bicchiere di vino che bevevano già i nostri antenati mille anni fa.

Chi l’ha fatto rinascere e ne ha riportato in tavola la bottiglia è Giuseppe Mauro, enologo ed enofilo, figlio d’arte perché il suo casato, originario delle Langhe, da generazioni vinifica le uve nella sua cantina. Un giorno há scoperto che nelle vigne tuttora coltivate nel nostro territorio, esiste ancora il vitigno del “Nebiolus”, già nominato in un Documento del 1268. È andato alla ricerca di quei filari, l’ha coltivato anche nella sua vigna e vinificato.

Quella bottiglia, succo genuino di quelle uve, è oggi una chiccheria e quando ne centellini un bicchiere, ne senti il profumo e l’aroma, quello delle nostre terre ben esposte al sole, lo senti amabile, delicato, brioso, delicato e soprattutto nostrano. E allora ti vien da ricordare che un tempo, quasi mille anni fa, nel dronerese, ultima propaggine della Val Padana e anche su per la valle allignava la vite, come nel Monferrato e nelle Langhe. La prof. Giovanna Frosini, in una sua attenta e documentata indagine, avanza l’ipotesi più che probabile che la coltivazione della vita sia stata introdotta in Val Maira dai monaci cistercensi di S. Colombano, venuti qui da Bobbio per dar vita, nel 700, all’Abbazia di S. Costanzo.

Ipotesi suffragata dallo storico Manuel di S. Giovanni, nel suo libro “Degli antichi monasteri di S. Costanzo e S. Antonio, laddove a pag. 247 dice: I monaci, gran benefattori dell’umanità, ridussero terre incolte a coltura, lasciando rivestiti di boschi le erte pendici dei monti. Gran parte del territorio soggetto all’abbazia era occupato da castagneti fruttiferi e da vigne”.
Cosi avevano fatto quei monaci a Bobbio, dove la vite è coltivata in tutta la Val Trebbia.
A Villar, tutta la collinetta, ben esposta e soleggiata, chiamata “La Barona” o “Podium Baronarum”, dipendente dall’abbazia, era tutta una vigna, come pure la Rella e Lauretta, fino ad Artesio, per un’estensione di 253 giornate. E poi le terre del Borgo Sorsana fino a Foglienzane, al ponte Olivengo e Tetti.

A destra del Maira c’erano vigne a Pratavecchia e Ricogno, fin sotto il castello di Montemale e ancora a Tetti Camosci e via Buia. E proprio a via Buia, nell’autin di mio nonno, da bambino ho ancora raccolto tra gli otto filari, bei grappoli di nebbiolo, ma c’era anche il montanera, il neretto, il pinot, il dolcetto e il barbera, il quagliano e la dolce luglienga oltre a “l’americana” che si faceva appassire per l’inverno. Pigiando nella tina tutte
queste qualità di uve ne veniva spillato un buon vino da pasto sui 9-10 gradi e, in certi anni, in cui la stagione era favorevole e calda, sortiva. anche più gradato, dolce e liquoroso.
Il prof. Sergio Garino, nella sua Tesi di Laurea sul Catasto del 1536 del Comune di Dronero ha contato che l’alteno copriva 330 giornate e la vigna 886. Nello “Stato d’anime” della parrocchia di Pratavecchia ho trovato che la cascina chiamata “La grangia” a Ricogno, aveva il suo vignolante che doveva coltivare ben dodici giornate di vigna.

Data l’estensione e la produzione, il vino era più che sufficiente per il fabbisogno per cui, negli Statuti, era vietato importare uve e vino da fuori zona. Il primo accenno al vino della nostra valle risale al 1156, in un Atto di donazione da parte di Enrico di Montemale a favore della Collegiata di Oulx, nel quale si legge: dedit et concessit apud Almam (Macra) decimam bleudi et vini…” Ci ricorda così che la vite allignava anche oltre Dronero, al Podio di S. Damiano M. sui terrazzi di Lottulo, Macra, Caudano, Bassura di Stroppo, fino ai Vignali (anche il nome lo dice). Per dir messa, a Caudano, i massari mi preparavano l’ampollina con quel loro vino genuino.

In un diploma di Federico Barbarossa del 1159, l’imperatore confermava i diritti della Chiesa torinese sulla “curtem de Ripulis cum tota valle Magrana, cum montibus et vallibus et suis pertinentis,. cum campis, pratis, pasculis,
silvis, hierbis et vineis…” Terre passate poi ai Marchesi di Saluzzo. Nel 1383 il marchese Federico fa donazione delle decime della Val Maira alla chiesa di S. Costanzo, nel suo testamento del 1391 stabilisce che la retribuzione dovuta all’abate doveva essere di 16 sestarii di frumento e 2 di vino. Doveva essere di buona qualità se lo bevevano anche gli abati e i vescovi.
Una coltura quindi molto antica ed estesa di cui parlano sovente gli Statuti (1476) che proibivano di mescolare acqua al vino (un vizio molto antico), comminavano multe per chi fosse entrato nelle vigne altrui quando l’uva era matura e di introdurvi “bestias lanutas”.

Per venire più vicino a noi, ancora negli anni ’50, quand’era daziere il rag. Scaglioni, nel Comune di Dronero si pagava ancora il dazio su oltre 400 ql. di uve. L’abbandono e lo sterminio delle vigne fu provocato dalla peste della fillossera e dall’invasione selvaggia del cemento, ma anche dall’abbandono della terra, perché “lavorare stanca”, la vigna dà molto lavoro e la terra è bassa.

Più facile, perché ci sono maggiori possibilità, comperare le uve nella Langa o il vino imbottigliato, magari col metanolo.
Ben vengano questi giovani imprenditori come Giuseppe, che ritornano alle colture antiche per riscoprirne i sapori, per mettere in tavola il bicchiere genuino del Nebbiolo nostrano; come quelli che a più alta quota coltivano il génepy o la lavanda o altre erbe aromatiche, per ricavarne liquori e profumi.

“È un vino, dice il dépliant del Nebbiolo di Dronero, molto particolare, singolare, non paragonabile agli altri conosciuti, che ci auguriamo possa essere apprezzato da un sempre più vasto pubblico”. È importante che almeno non vada perduta la memoria della fatica e del sudore consu mati tra i filari ora scomparsi, dai nostri nonni.

Nebbiolo di Dronero - Articolo del Corriere